Quella domenica mattina, entrando nella jeep che mi avrebbe portato sull’Etna, avvertii un senso indefinito di panico, un leggero soffocamento che durò pochi attimi. La presenza di una simpatica guida e l’allegria della piccola comitiva riunitasi sull’auto rasserenarono la mia innata paura per i vulcani, che da qualche anno si era trasformata in inquieta attrazione. Esaminai il mio equipaggiamento – scarpe da trekking, giacca a vento, comodi pantaloni di felpa, calzettoni di lana, berretto e zainetto, – ritenendolo eccessivo per un programma che non prevedeva una visita alle bocche del vulcano, per le quali sono necessari permessi speciali.
Ricordavo ancora la delusione avuta qualche anno prima sullo Stromboli: a soli 500 metri, con il cuore che mi batteva all’impazzata e un senso misto di vergogna, ma in fondo anche di sollievo, avevo rinunciato ad arrivare su fino alle bocche, che già dalle pendici si vedevano fiammeggiare.
Lasciata l’elegante pensione “Paradiso dell’Etna” dove alloggiavamo, la jeep s’inerpicò dopo il paese di Fornazzo lungo il pendio nord del vulcano, tra stradine tortuose e boschi verdeggianti di castagni e querce. Stretta tra il finestrino e una loquace signora che ripeteva incessantemente – Mi sento nel Vermoooont,- alludendo al cangiante colore rosso arancio della vegetazione, ripercorsi i momenti della mia recente passione.
Tutto era iniziato nell’umida estate del 2009 mentre cercavo refrigerio nelle acque del mare di Menfi. Giusto in agosto, il fuoco incandescente dei vulcani e la loro sotterranea energia s’imposero alla mia attenzione. Tra marzo e luglio di quell’anno l’Etna aveva ripreso la sua attività eruttiva e Paolo Rumiz, che seguivo sulle pagine di Repubblica, stava dedicando i suoi racconti di viaggio ai vulcani d’Italia. Importanti furono anche, una serie d’incontri che sembrarono apposta coagularsi per risvegliare il mio interesse. Un ruolo non indifferente lo giocarono i dipinti della mia amica Alessandra di cui ero ospite: raffiguravano vulcani di cupa bellezza la cui energia si sprigionava in un sovrapporsi di colori accecanti su fondi scuri e misteriosi. Quando stiamo insieme, mi accadono le cose più straordinarie: un pomeriggio, sedute al bar del lungomare, “u Zu Petru”, un pescatore di Menfi, ci raccontò una storia incredibile – Vitti na nutti u mari isarsi e con granni frastuono apparvi un’isula e dopo pochi ori spariu. Era così determinato e tranquillo che ci fu impossibile mettere in dubbio le sue parole.
In una di quelle notti estive che fanno presagire temporali, rimasi inoltre affascinata dal racconto di Manfredi, nostro vicino di casa. Esperto scalatore, dichiarò, quasi stizzito con se stesso, di essere salito per la prima volta sull’Etna solo quella estate.
– Abbiamo il vulcano più alto d’Europa e stiamo lì a guardarlo come se fosse una cartolina del Fujiyama – mi disse; poi, con voce emozionata, iniziò il suo racconto – Scalare l’Etna non è soltanto un’esperienza di trekking… é sperimentare il sublime… il mistero. Sei immerso in un paesaggio lunare, che puoi toccare con mano. Vedrai la notte e il giorno convivere nel medesimo istante. Lassù incontri il mito, la storia: Empedocle vi scomparve, vi abitarono gli dei dell’Olimpo e i Cavalieri della Tavola rotonda. Potrai giocare con montagne di cenere e scivolare a valle per 600 metri. La lava incandescente distrugge tutto quello che incontra, ma una volta pietrificata rende la terra fertile e vitale. Gli abitanti dei paesi sottostanti la usano come fertilizzante delle piante. Per godere di questa esperienza bisogna però, già all’alba, trovarsi a quota 2500 m. Ti consiglio di arrivarci la sera prima. Per ripararti dal freddo potrai dormire in una buca scavata nella cenere. Lo ascoltavo meravigliata – Non credo di poterlo fare – dissi ridendo – Le isole con i vulcani sono sempre luoghi stregati, bisogna scalarli per capire chi siamo, – concluse, Manfredi. La mia amica Alessandra sorrideva, forse lo sapeva già.
Presi allora consapevolezza del mio irrazionale rifiuto di sapere quello che accadeva nel profondo della terra che più volte avevo sentito tremare. La stessa notte, sulla spiaggia di Menfi, davanti a un mare scuro e agitato, percepii per un attimo l’odore nauseabondo dello zolfo, ed ebbi certezza che il rumore sordo di quelle acque non era altro che l’amplificazione di una perenne inquietudine sotterranea. Per alcuni istanti mi sembrò di riuscire a decifrare alcuni segni segreti della mia isola e anche un pò di me stessa.
Ora risalendo la montagna che in passato era chiamata Mons Gibel – due volte monte – mi chiesi se e come da allora avessi continuato a cercare, ma come al solito elusi la risposta.
Non è la prima volta che salgo sull’Etna! – annunciai al resto della comitiva – Si! Si! Anch’io! –fu un coro di voci- Anche per me non è la prima volta. Anzi sono venuta più di una volta con un vulcanologo di fama – disse con supponenza la mia vicina. Sapeva tante cose, e parlava, parlava, tanto da zittire la nostra guida. Non raccontai per pudore che, quasi vent’anni prima c’ero stata solo per sciare. Ero con Maurizio per cui avevo provato una passione ancora non del tutto sopita. Ricordavo l’atmosfera accogliente della pensione, la stanza tutta in legno, le piste, le nostre cadute, le risate, ma col tempo avevo dimenticato sia il nome della pensione, sia quello del pianoro. Forse quella era l’occasione buona per ritrovarli, ne avevo avuto sempre nostalgia. Qui – intanto continuava a illustrarci la guida – nel 1979, la colata di lava si fermò d’improvviso. Un vero miracolo! Questa cappella fu eretta per devozione dagli abitanti di Fornazzo. -Tra poco arriveremo alla grotta dei Ladroni, tra le più antiche dell’Etna.
La Jeep, salendo tra pendii brulli e impervi, si fermò in un bosco, dove esili steccati di legno indicavano l’ingresso della grotta. Con caschi e torce ci calammo con una fune dentro la bocca della caverna. -Finalmente un po’ di avventura!- esclamarono alcuni di noi, mentre altri si rifiutarono di entrarvi. Baldanzosa io proseguii nel cunicolo buio, scavato, secoli prima, da un fiume di lava incandescente. – Nel ‘700 questa grotta era usata per conservare il ghiaccio per i sorbetti dei nobili – ci raccontava la guida, – ma io non ascoltavo più. Ero stata assalita da una morsa di paura che fino a quel momento avevo tenuto a bada. Vedevo in fondo alla grotta una chiazza di sole, ma le mie gambe, diventate pesanti, non riuscivano a raggiungerla. Il gelo della caverna mi procurava brividi in tutto il corpo e lontane mi arrivavano le voci dei miei compagni. – Signora, signora, venga di qua, dobbiamo uscire. Andiamo a Piano Provenzana. Qualcuno mi prese per mano conducendomi fuori. Sulla jeep ripensai a quei momenti di panico in cui avevo avuto la strana percezione di essere sollevata con forza da una lingua di fuoco e scaraventata in paesaggio brullo e desolato dove pochi stecchi di alberi bruciacchiati e bianchicci indicavano un percorso lungo il quale su un cartello era scritto, “Pensione le Betulle”. Scesa dalla jeep, riconobbi a stento il posto dov’ero stata vent’anni prima. In fondo la strada intravidi un tetto spiovente: affiorava sghimbescio e sconquassato tra la lava che ricopriva il resto del fabbricato di circa 15 metri. Tutto era stato pietrificato. Un silenzio pesante ammantava storie, vite, ricordi. Sul cielo azzurrissimo si stagliavano le bocche fumeggianti del vulcano e con stupore decifrai il suo messaggio.
Anna Cottone – Texte / Text / Testo
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