Coiffeur Margherita a Palermo
Il luogo dell’infanzia per eccellenza era la parruccheria di mamma. Antro caldo e ospitale, un secondo ventre materno. Lieve l’odore di balsami si mescolava all’odore acre dei liquidi per la permanente. I suoni erano quelli del soffio tiepido dei phon, il chiacchiericcio delle clienti, delle ruote dei carrellini porta bigodini, lo scatto di chiusura dei caschi. Sotto il casco era possibile isolarsi nel calore. Era come andare in una navicella spaziale, viaggiare dentro una galassia ogni volta diversa e se eri arrabbiato, triste, deluso, sprofondavi nei tuoi pensieri. Spiavi le labbra della mamma e delle clienti che sotto l’alito protettore del phon, svelavano segreti, tradimenti, in un intimo confronto con gli occhi sgranati delle impiegate, o con il sorriso della mamma che s’improvvisava psicologa, o grande madre, severo giudice, o amica scanzonata.
Le clienti di mamma non sapevano che lei le imitasse. Era capace di cogliere in modo arguto gli aspetti essenziali delle persone, isolando un gesto o un’inclinazione particolare della voce. E’ stato per anni un passatempo di noi bambini chiederle l’imitazione della scontrosa signorina Cammarata, delle buffe zitelle Recupati e dell’affascinante pittrice, la signorina Di Giorgio, o dell’austera principessa Paternò. Gesto d’amore per il suo lavoro, per le sue clienti, senso di appartenenza ad una storia, ad un ambiente, un modo per scaricare lo stress. Il periodo magico, quello degli anni 60 io me lo ricordo. Oltre la mamma c’erano ben quattro impiegati: Sarino, Clara, Rosalba, Lia e a volte il sabato, giorno senza chiusura a pranzo, non sempre riuscivano a far fronte al lavoro. Ecco, in quel periodo, entrando in parruccheria, si rischiava di intossicarsi con l’uso folle della lacca per tenere su le cotonature, tutta quell’impalcatura sulla testa con le quali le signorine Lo Monaco sfidavano il mondo. Abitavano proprio all’angolo di Corso Camillo Finocchiaro Aprile con Viale Regina Margherita. In casa tenevano anche una sartoria e sotto, in cantina, i fratelli Ettore e Ninni avevano una band. Capelli lunghi, baffoni, suonavano canzoni dei Nomadi, dei Dik Dik e persino dei Beatles. Io ero follemente innamorata di Ninni, e poiché spesso, durante le vacanze estive, passavamo molto tempo a casa Lo Monaco, Ninni ed Ettore ci portavano ad ascoltare la band, così, a cinque anni, conoscevo la musica underground.
Quando uscivamo da scuola, la Luigi Capuana di Via Alessio Narbone, io e mia sorella Roberta passavamo dal negozio, che era proprio vicino vicino. Caricavamo sulla 500 fiat color verde acqua cartelle e grembiuli, fiocchi rosa confetto, pacchi della spesa e andavamo a casa. Ma la 500 della mamma spesso restava in panne e allora prendevamo una macchina a nolo, una 600 multipla che caricava più persone. Mi ricordo che mi faceva una strana sensazione stare pigiata insieme a degli sconosciuti e d’estate l’afrore era spesso insopportabile. Altre volte saltavamo sulla carrozza trainata da cavalli e quello era più divertente. Se pioveva ti riparavi sotto il tettuccio apribile, altrimenti era bello procedere sobbalzando al rumore degli zoccoli ferrati sull’asfalto. Erano tempi in cui ancora le carrozze erano veri mezzi di trasporto e non mezzi destinati ai turisti con cifre da capogiro.Una volta portammo a casa la signora Rosa, moglie del fotografo di strada di Viale Regina Margherita, che era meta di coppiette di innamorati che lui immortalava con la macchina sul treppiedi. La signora Rosa veniva a fare le pulizie a casa nostra. In macchina se ne stava infagottata in una pelliccia sinistra agli occhi di noi bambini; pensavamo fosse di gatto o di cane.
Dal negozio di mamma spesso partivano piccole escursioni nei dintorni, accompagnati da clienti affettuose, dalla signora Anna, che noi chiamavamo nonna o da una delle impiegate: c’era il Villino Florio di Viale Regina Margherita, il luogo mito della mia infanzia. Il villino era chiuso e pericolante,a causa di un incendio doloso, ma nel giardino ci era concesso di giocare. Una volta fui ripresa dal marito della signora Rosa, che era il guardiano, mentre salivo su per lo scalone che portava al portale d’ingresso. Mi rimase per sempre la visione di un mondo mitico e inaccessibile, ed elessi il villino a mia casa ideale.
Un’altra gita era al chiosco dei gelati di Castagnetta. Io prendevo sempre la brioche con la panna, fatta a mano, leggera e irripetibile. Il signor Castagnetta era antico, non vecchio, con un cappellino in testa, magro, il grembiule bianco e gli occhiali sul naso, che facevano brillare gli occhietti azzurri.
Un’altra gita ancora era all’ Upim a comprare sciocchezze, e a piazza Principe di Camporeale, dalle suore, che ci regalavano sacchetti pieni di ritagli di ostie, che io mio fratello e mia sorella sgranocchiavamo come delizie. Mi sentivo dissacrante nel mangiare con voluttà lo scarto di qualcosa che era destinato alla sacralità della prima comunione e questo mi faceva ridere e mi faceva sentire un agente segreto, o una criminale in un thriller.
Dalle piccole gite si rientrava poi in negozio carichi di cose, con le labbra sporche di panna e gelato.
Al Coiffeur Margherita, questo è il nome di mia madre, io ci sono quasi nata, e comunque ci ho vissuto da piccola dentro un box pieno di giocattoli. L’ambiente era rumoroso e pieno di fumo ed io mi ritrovavo a mordere i bambini che si avvicinavano per farmi una carezza. Una volta diedi un morso a un certo Giacomo. La madre voleva denunciare mia madre. Giacomo in realtà mi tormentava con i beccucci da bigodini, ecco perché io gli avevo dato un morso. Mia madre e mio padre mi portarono dal medico, mi fecero un elettroencefalogramma, pensavano che fossi un po’ matta, ma il medico disse che i pazzi erano loro e così mi trasferii dalla zia Concetta che viveva con nonno Ghergherù.
Nel negozio di mamma il tempo ogni tanto passava papà sempre smagliante di ritorno da un giro della Sicilia come ispettore alle vendite e poi mamma diceva che la signora tal dei tali aveva detto quant’è simpatico suo marito, che bell’uomo, ma è sempre così allegro? A noi veniva da ridere, perché papà a casa era lastimiusu, con mille paranoie ed ipocondriaco. La verità è che papà passava perché gli piacevano le lavoranti di mamma e mamma se ne accorgeva sempre e si arrabbiava pure parecchio. Mamma aveva un libro segreto, pieno di numeri e simboli e criptiche formule per tinture. Dal retrobottega ogni tanto usciva pronunziando formule magiche – sette e mezzo e otto a venti – e le lavoranti capivano e sapevano cosa fare oppure-trenta cc e sette e trenta più una pennellata di biondo. Ma il momento più bello, secondo me e secondo la signorina Di Giorgio era lo shampoo. Una volta ci capitò di fare lo shampoo una accanto all’altra. Mentre ci massaggiavano la cute lei parlava con la sua erre arrotata, e le sue lunghe mani affusolate seguivano il tono un po’ snob delle sue parole lente e cadenzate, facendo tintinnare i bracciali ai polsi. Mi raccontava della memoria personale, della trasfigurazione della memoria rispetto il catturare un’immagine con una banale foto ricordo, Le nostre teste reclinate indietro, le mani dolci ma decise, la sensazione morbida dello shampo;chiudevo gli occhi e sentivo gli odori, mi facevo cullare dal suono dell’acqua e dalle parole dinoccolate di quell’artista raffinata e originale e pensavo che un giorno mi sarebbe piaciuto diventare come lei.
Alessandra Pizzullo Palermo dicembre 2012