Anna Maraventano – Texte / Text / Testo
Histoire écrite en italien / Story written in Italian / Storia scritta in Italiano
Talvolta si vivono certe storie che non si riesce a sapere quali sentimenti hai provato mentre le vivevi e quali oggi quando le rievochi. Rimangono come pellicole riposte nella cineteca della memoria in attesa di essere forse un giorno riviste.
Perché? una casualità? un’associazione di idee?
Una prozia settantaduenne, sorella della nonna materna, quando io avevo circa quattro anni, venne a svernare a casa nostra in città. Soffriva di una lieve depressione ciclica e dunque dal suo paesino dell’entroterra della Sicilia veniva in città per farsi seguire dai medici.
Mia madre, sua nipote di primo grado, l’ospitava d’inverno; d’estate la zia tornava a vivere in paese presso un’altra nipote a me sconosciuta.
Arrivava accompagnata in una macchina guidata non so da chi. Si vedeva uscire prima un’enorme valigia, poi una vecchietta di bassa statura con un triste foulard grigio in testa; il lungo viso con le rughe all’ingiù e gli occhi socchiusi; il vestito era nero, smorzato appena da un grembiule forse dimenticato addosso, oppure ornamento della gonna fino al polpaccio. Tutte le donne che vivevano in paese vestivano così.
Velocemente la zia svuotava la valigia e riponeva i suoi pochi indumenti nel cassetto che mia madre aveva predisposto nell’armadio di colore chiaro delle mie sorelle. Poi scompariva. Rimaneva a lungo a letto e sentivamo i suoi ripetuti lievi lamenti ogni giorno. Se si alzava, stava seduta su una sediolina apribile, quella che si portava da casa: lì, arrotolata su se stessa, trascorreva ore e ore davanti ad una stufa per riscaldarsi le mani, le faceva scivolare l’una sull’altra lentamente, così vicino alle resistenze incandescenti che quasi si ustionava.
A me sembrava un fantasma lamentoso relegato in un piccolo angolo della camera; eravamo tanti in famiglia e questo stemperava il disagio.
In primavera zia Teresa si svegliava dal lungo letargo, era un evento fantastico per me e mia sorella che ciondolavamo in casa fra i compiti di scuola e i giochi perpetui. Le medicine iniziavano a fare effetto e la zia finalmente poteva giocare con noi, o meglio noi giocavamo con lei. Ci chiedeva di recitare il rosario insieme mentre apparecchiava una specie di altare sul suo comodino; noi correvamo da lei e ci posizionavamo davanti a piccoli lumini accesi, immaginette di santi e della Madonna. Ci divertivamo un mondo, era esilarante le lettura delle litanie perché, sotto il sibilo continuo delle “sss” terminali delle orazioni, si poteva celare il crescendo delle nostre complici risate. La zia non si accorgeva di nulla, impassibile scorreva i grani di una bellissima corona di osso finemente inciso.
Questo rito si ripeteva ogni pomeriggio a partire dall’inizio della primavera, nella penombra della stanza silenziosa.
Cosa provassi io è vago e sbiadito, lei era poco espansiva e non ci accudiva. Mi domandavo sempre se somigliasse a sua sorella; cercavo sul suo viso tratti eventualmente somiglianti guardando una vecchia foto di mia nonna che non ho conosciuto.
Un altro rito si alternava al primo, anche questo segnava il risveglio di mia zia, anche questo ameno come il primo. Ci portava a passeggiare nel giardino di agrumi che segnava vicino casa nostra il confine tra l’abitato e l’aperta campagna. Trotterellavamo allegramente accanto a lei, immerse nel profumo della zagara appena sbocciata. Lei non teneva più il foulard grigio annodato sotto il mento. Ora i suoi capelli dietro la nuca ordinati in una treccia arrotolata su se stessa, si scompigliavano sulla fronte sollevati dal primo vento di primavera. Là raccoglievamo rametti odorosi che portavamo a mia madre per vederla sorridere.
La gioia che provavamo era fresca come quelle giornate, ma- ahimè -durava poco; iniziava l’estate e la zia era pronta per andare, per tornare al suo paese: allo scoccare del sesto mese di ospitalità indossava un vestito nuovo e ricomponeva la sua unica grande valigia ma ora in più aveva mille pacchi dono da portare alla nipote sconosciuta.
Dopo tanti anni di questo andirivieni ci abituammo alla sua partenza, tanto in autunno sarebbe tornata ancora.
Soltanto una volta andai a trovarla insieme ai miei genitori e soltanto quella volta vidi zia Teresa sorridente. Ricordo appena la sua piccola casa fra le altre, tutte a un piano e dello stesso colore grigio, nel paese natio di mia madre. Fu un lunghissimo viaggio in treno, la classica littorina che si prendeva per raggiungere i paesi dell’entroterra della Sicilia. Dell’incontro con la zia è rimasto ben poco ma più viva è l’immagine della sua casa, non però delle stanze dove viveva, ma di un giardino nel retro. Era piccolissimo e occupato in un angolo da un pollaio con tre galline dentro; una rete alta a grosse maglie lo circondava e sopra, da un grazioso pergolato, pendevano grappoli di uva acerba. C’era più in là tra le piantine e l’erba incolta una grossa tartaruga rinchiusa nel suo guscio. Vidi a un tratto spuntare le zampe ai quattro angoli della dura corazza, si allungavano assieme alla testa protesa verso l’alto, sembrava svegliarsi infastidita; mi sembrò, tutta intera, un colosso preistorico in miniatura. Stupenda. Quel giorno non feci altro che lanciare acini acerbi alle galline e infilare nella bocca della tartaruga foglie ancora tenere di edera.
Dopo quella breve gita la zia non tornò più in città. E non so perché. Talvolta arrivavano sue notizie attraverso brevi lettere mandate a mia madre. Di lei seppi, anni dopo, che era morta e io l’avevo già dimenticata.
Forse l’amore che avrei voluto provare per una nonna è rimasto cristallizzato in questo ricordo d’infanzia.