Un forte vento di scirocco flagellava la costa già dalla notte precedente. Dura tre giorni, dicevano i pescatori, quando da piccola arrivava il vento dall’Africa. Arriva sempre in primavera oppure in autunno, come adesso. Le barche tirate in secca, giù sulla spiaggia, io me ne sto appollaiata in cima al promontorio che domina la baia da un lato, la caletta dall’altro. Alle spalle il mare aperto.
Il mare, agitato dal vento, che fino a pochi giorni fa mi accoglieva tranquillo come l’abbraccio di una madre, oggi fa un po’ paura. Però a me piace anche così.
Il mare d’inverno a volte mi piace più che d’estate, mi trasmette serenità… Che strano, lui incazzato io serena!
Dal promontorio che digrada, giù fino al lungomare, sull’ ultimo tratto di scogli prima dell’inizio della baia, in fondo, si staglia la “casetta bianca”. Una costruzione che è lì da sempre.
La guardo e mi chiedo come ha fatto, in tutti questi anni, a resistere imperterrita al susseguirsi delle stagioni, a superare tutte le intemperie.
È lì col mare calmo, che si infrange dolcemente sullo scoglio su cui è abbarbicata; ed è ancora lì col mare grosso, come in questi giorni che, spinto dal vento di scirocco, arriva fino agli scogli ed oltre, fino al cancelletto del viale che porta alla casa.
In cima al promontorio, me ne sto seduta sugli scalini che portano alla piccola cappella della Madonna del Lume, alla sommità del promontorio, che è lì da sempre, da prima che nascessi.
L’immagine della Madonna, minuscola di fronte all’immensità del mare, messa lì a ricordo delle grazie ricevute dai marinai in difficoltà.
Da qui mi faccio rapire dal mare agitato dal vento. La sabbia del deserto si insinua fin dentro gli occhi. Fatico a guardare e intanto, più lontano, una nave sta attraversando l’orizzonte con il suo carico, forse di mercanzie, sicuramente di uomini. Cerco di immaginare lo stato d’animo di quegli uomini, in alto mare, con un tempaccio simile.
Il vento, con le sue raffiche, a momenti squassa i rami degli alberi, sul lungomare. Li scuote, li piega. Le foglie staccate dai rami vorticano nel cielo e poi ricadono sull’asfalto.
Non c’è nessuno in giro. Sono sola, decido di muovermi. Mi incammino riluttante, mi stacco a fatica e mi avvio verso la scala che costeggia la caletta, lì non spira un alito di vento, il mare è fermo.
Rivedo i posti della mia infanzia.
In lontananza, scorgo un pescatore, si avvicina alla sua barca. Le gira intorno, la controlla, l’accarezza come a volerle confermare il suo attaccamento, perché è il suo tesoro, l’unica proprietà.
Più in là si apre l’uscio di un bar, che da fuori sembrava disabitato, ne esce un uomo anziano, incuriosito forse dalla mia presenza. Non è stagione, né tempo per i villeggianti. Ci sono poco lontano altri due chioschetti, ma sono chiusi. D’estate questa zona è molto frequentata.
Quando ero piccola, ricordo, si viveva solo di pesca, adesso c’è anche un’insegna di bed & breakfast.
Continuo a salire, arrivo dove ha abitato mia nonna. Comincia a prendermi la nostalgia, i ricordi si affollano nella mente, faccio fatica a tenerli a bada. A sinistra scorgo la villa, costruita negli anni 60, che fu di un bel colore rosa, oggi sbiadito dalla salsedine. Sento le nostre voci, quelle dei bambini che eravamo. In giro nessuno.
Più in là un’altra costruzione della stessa epoca, ridotta anche peggio, sembra abbandonata. Penso, magari il proprietario sarà morto.
Mi guardo intorno, il rumore del vento che si insinua fra le strette vie mi dà un senso di angoscia.
Decido di tornare a casa.
Michela De Santis – Texte / Text / Testo
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