Ancora oggi, ho qualche dubbio su come si chiamasse esattamente la mia bisnonna paterna.
Mia nonna e le mie prozie hanno sempre affermato che si chiamava Basilia e questo stesso nome è stato confermato anche da mio padre e dai suoi fratelli.
Non ho mai incontrato nessuno con questo nome così insolito che, sin dall’inizio, non mi ha mai convinto fino in fondo.
L’unica foto che ho di Basilia, è un piccolo ritratto cartonato di Seffer, un famoso fotografo che lavorava a Palermo alla fine dell’ottocento. Sul retro c’è una piccola pubblicità dell’azienda: Fotografia premiata a diverse esposizioni e con diploma di merito – Riproduzioni, Ingrandimenti – Specialità Fotografia Statuaria e Ritratti al naturale.
Basilia è in piedi e indossa un curioso vestito chiaro con le maniche a sbuffo che le arriva fino ai piedi e le copre perfino le scarpe. In una mano tiene un ombrellino chiuso. I capelli sono scuri e raccolti all’indietro e il suo sguardo è perso nel vuoto.
Se io fossi venuta in foto con quello sguardo così assente, avrei subito cancellato lo scatto dalla fotocamera digitale oppure avrei chiesto al fotografo di farmi un altro scatto ma credo che, ai tempi di Basilia, il solo fatto di avere una foto, costituiva già una grande fortuna. Chissà se la macchina del fotografo, nel fare lo scatto, ha emesso quella sorta di piccola esplosione che facevano le macchine fotografiche a quell’epoca. Sarà per questo motivo che Basilia sembra così a disagio in quella foto? E chissà quanti anni aveva e cosa pensava quel giorno, mentre stava in posa – immobile – e il flash l’abbagliava, illuminandola da capo a piedi.
Ma torniamo alla questione del nome.
La prima volta che l’ho sentito ero piccola e cercavo di trovare delle parole che gli somigliassero: basilica, basilico (o basilicò, come diceva mia nonna) e anche Bastiglia.
Basilia e Giovanni Battista, il mio bisnonno, andavano regolarmente in America a bordo di una di quelle navi sovraffollate che ci mettevano un mese prima di arrivare a destinazione.
Una volta giunti lì, facevano un po’ di soldi e poi tornavano in Sicilia per comperare un piccolo terreno o una casetta. Questo succedeva alla fine dell’ottocento, quando erano sposati da poco.
L’idea di lavorare sei mesi in America e di stare in Sicilia gli altri sei mesi, sembrava funzionare piuttosto bene finché Giuseppe, il loro primogenito, non si ammalò e morì improvvisamente durante una delle traversate dall’Europa verso gli States.
I racconti dei miei parenti circa la tragica scomparsa di Giuseppe si sono sempre mantenuti sul vago, indolori come una carezza fatta su di una ferita cicatrizzata.
Difficile, persino a distanza di decenni, ricordare che si dovette gettare il corpicino in mare per scongiurare il rischio di epidemie a bordo.
Fu da quel momento che i viaggi s’interruppero e, i due, misero definitivamente radici a Palermo dove Basilia partorì altri quattro figli e morì giovane.
Non ho mai trovato un documento d’identità, un passaporto, qualsiasi cosa le fosse appartenuto, tranne la foto di Seffer che la ritrae con l’ombrellino in mano.
Già da qualche tempo, su internet, è possibile visualizzare le liste passeggeri degli emigrati in America, giunti a Ellis Island da ogni parte del mondo. Si tratta di documenti originali, prima digitalizzati e poi indicizzati per nome. È attraverso questi documenti che ho ricostruito i viaggi di Basilia.
A volte viaggiava col marito, in altri casi c’era anche il piccolo Giuseppe (Giosci, come lo chiamava mia nonna).
Basilia faceva la bambinaia, era analfabeta e, insieme al marito, arrivava in America con circa trenta dollari in tasca.
In quasi tutti i documenti scritti a mano, Basilia si chiama Rosalia. Solo in un caso si legge il suo nome corretto.
Dovevano sbarcare tante Rosalie da quelle navi e chi redigeva quelle liste andava, con molta probabilità, a intuito.
Linda Scaffidi – Texte / Text / Testo
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