Mia madre mi raccontava spesso che quando ero appena una neonata, amava sdraiarsi sul letto e tenermi poggiata sul suo petto. Mi diceva, con gli occhi che sorridevano, che dopo qualche secondo il mio cuore cominciava a battere all’unisono con il suo, e lei restava così, a guardarmi e guardarsi respirare.
Circa diciannove anni dopo, stesso letto, ruoli invertiti.
Lei era sempre stanca e dormiva tanto. Io passavo ore, spesso pomeriggi interi distesa accanto a lei, la mia testa sul suo cuscino. Le tenevo la mano, unico punto di contatto fisico, a volte neanche quella per paura di farle del male. E la guardavo. Guardavo il suo petto magro magro andare su e andare giù, su e giù, su e giù. Mi concentravo e sincronizzavo il mio respiro al suo, contenta di ascoltare l’aria che entrava e usciva dal suo corpicino in pena.
Una mattina, all’alba, il respiro si è fatto pesante, poi difficile, poi ansimante, un rantolo. Il dolore di quel respiro l’ha svegliata. Mi ha guardata, mi ha chiesto di aiutarla. Non ho potuto.
Ho continuato a respirare con lei. Respiri distanti, che ci scuotevano il corpo. Ero lì, distesa accanto a lei, le stringevo la mano, le guardavo ora gli occhi ora il petto.
Un respiro. Un altro. Poi un altro. Poi un altro. Poi ho aspettato.
Ho aspettato con la sua mano nella mia, i miei occhi sulle sue costole. Ho aspettato che anche il mio petto smettesse di andare su e andare giù, che l’aria smettesse di entrare e uscire dal mio corpo che si credeva nel pieno della vita e non capiva di essere appena morto. Con lei.
Sette anni dopo. Sto ancora aspettando.
A volte penso che il mio corpo non voglia arrendersi alla morte che porta dentro perchè un giorno anch’io mi sdraierò su un letto e stringerò una bambina al petto e sentirò il suo cuore battere all’unisono con il mio. Allora la guarderò e mi guarderò respirare, e saremo in tre.
Rosa – Texte / Text / Testo
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