Cose che non succedono mai

19 novembre 2012

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Era una sera di metà novembre. Guardai l’orologio che avevo al polso, erano le dieci e trenta in punto.
Soffiava una brezzolina leggera, di quelle che quando metti il naso fuori dalla porta di casa ti fanno rimpiangere di non aver messo qualcosa di più pesante. Poi ti stringi nella giacca, avvolgi bene la sciarpa intorno al collo e ti concentri sulla luce dei lampioni, cercando di convincerti che siano i raggi del sole, perfetti per riscaldarti le ossa.
C’erano pochi passanti per la strada, perlopiù pochi gruppetti di ragazzi già un po’ allegri, forse non ancora per effetto dell’alcol, e qualche coppia di innamorati che si sussurravano all’orecchio chissà quali segreti.
Gli amici erano rimasti dentro al locale a festeggiare il superamento dell’ennesimo esame, per alcuni l’ultimo prima della tesi di laurea. Ma la lunga e stressante giornata mi aveva reso insofferente al chiasso del pub, così mi ero allontanato dal gruppo per prendere una boccata d’aria.
Aveva appena smesso di piovere e la pioggia leggera aveva creato delle piccole pozzanghere ai bordi della strada e in cui si specchiava il chiarore del cielo che si stava lentamente schiarendo.
Quando mi risvegliai dal torpore dei miei pensieri, mi accorsi che anche un’altra persona stava sulla porta del locale, una ragazza. Mi soffermai ad osservarla. Il collo esile avvolto in un leggero foulard, il viso sottile e i capelli raccolti in una coda mora e ondulata, le gambe lunghe e snelle fasciati da un paio di jeans era tutto quello che non era nascosto sotto il lungo soprabito nero. Era un tipo semplice, comune, se così di può dire, ma allo stesso tempo brillava di un fascino unico nel suo genere, forse racchiuso nel suo sguardo cupo. No, la guardai meglio, era triste, anche un po’ annoiata, forse ancor più di me.
Non so cosa mi spinse a farlo, forse l’idea di poterci annoiare insieme, piuttosto che morire nella nostra solitudine, ma mi avvicinai.
«Hey, ciao.» le rivolsi la parola, quasi intimidito dall’alone di mistero che la circondava.
Lei si voltò a guardarmi, un po’ stralunata, come se non mi avesse sentito arrivare.
«C’è troppa gente dentro, non è vero?» ma quella tenera creatura continuava a guardarmi come se stesse cercando di capire se fossi amico o nemico. Abbassai per un attimo lo sguardo sul suo doppiopetto e lessi il cartellino che vi portava appeso: “Progetto Erasmus Novembre 2012”.
«Ah, ho capito, no Italia.»
Si limitò a scuotere piano la testa, mentre un sorriso affiorava lievemente sulle sue labbra rosee.
«English?» Scosse ancora il capo. «Español?» Ripeté il gesto.
Ma poi subito aggiunse «Moi, je suis française.»
«Ecco, lo sapevo» pensai «proprio quella che non conosco!» Poi tentai comunque in inglese «Ehm, I like it, Paris. So, I saw you before and I thought: wow, she’s lovely!» la feci sorridere, quasi arrossire, ma non ero sicuro che avesse capito davvero. Non demorsi «Ok, you’re beautiful. If you’re free we can eat. Dinner? Food?»
«Uh, no, je suis française, je ne comprends pas.»
«No no no tu non compri nulla, ehm, I pay. I pay you everything. Do you want a rose? I also buy the guy whit the roses.»
Adesso rideva, si mi aveva sicuramente capito. «Moi, je ne comprends pas, mais tu es très gentil.» anche se io non capivo lei.
«Ehm… Do you have a piece of paper?»
Mi guardava di nuovo dubbiosa. Non sapevo esattamente cosa mi attraesse di lei, ma non riuscivo a fare a meno di sorridere quando strabuzzava gli occhi in quel modo così innocente.
«Piece of paper.» ripetei. Le si illuminarono gli occhi e subito cercò nella borsetta e ne estrasse un foglio di carta ed una penna.
«Ça?»
«Ok perfect, now write on ça: three, three, four, seven…»
Mi porse il foglietto dicendomi «Tieni» in un italiano perfetto.
Abbassai gli occhi sul numero di telefono: non era il mio, non avevo ancora finito di dettarlo. Era il suo.
«Ciao!» e se ne andò così, lasciandomi lì come uno scemo e dissolvendosi presto nella nebbia della sera.

Sonia Foderà – Texte / Text / Testo
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